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CONTRATTAZIONE
di Cristiano Valente
Premessa
Per tentare una iniziale riflessione sulla contrattazione, che mi auguro possa essere sempre più definita organicamente dal contributo, dalle conoscenze dei compagni e soprattutto dalla buona riuscita di questo nostro tentativo di coordinamento, comincerei con una brevissima e sintetica storia delle precedenti stagioni politiche sindacali.
La stagione politico-sindacale a cavallo fra i primi anni '60 ed i successivi anni '70 traeva la sua maggiore forza dall'aver conferito al salario operaio ed alla necessità di un reddito una valenza sostanzialmente slegata dal ciclo produttivo, legata invece ai bisogni crescenti ed alla prospettiva da parte delle masse popolari e giovanili di migliori condizioni di vita.
Nei primi anni '60 l'azione sindacale è molto intensa.
E’ alla fine di questo periodo che i sindacati sollevano, in sede contrattuale, il problema delle gabbie salariali in una vertenza condotta unitariamente. Le differenze salariali tra zona e zona sono consistenti, anche se in parte ridotte da due accordi che erano stati stipulati nel 1953 e nel 1961. Nel 1954 l’Italia è ancora divisa in 14 zone e livelli retributivi. Nel 1961 poi le zone vengono dimezzate e viene prevista una diminuzione dello scarto tra la prima e l’ultima dal 29% al 20%. Le “gabbie salariali” vengono definitivamente abolite nel 1969, dopo anni di lotte operaie, durante le quali Cgil, Cisl e Uil avevano lanciato una vertenza nazionale sostenuta da scioperi e manifestazioni: il 21 dicembre 1968 fu l’Intersind (l’associazione padronale che rappresentava le aziende a partecipazione statale come Iri ed Efim) ad accettare l’eliminazione delle gabbie, sia pure in modo graduale entro il 1971, poi toccherà a Confindustria accettare il loro superamento.
I minimi salariali di categoria saranno uguali in tutta Italia a partire dal 1° luglio 1972. Il 25 gennaio 1975 con un accordo interconfederale inizia la progressiva unificazione del “punto” di contingenza al livello più alto.
Questo ciclo di lotte aveva fatto pendere la bilancia dei rapporti di forza a favore delle classi meno abbienti e dei suoi alleati. Per incrinare quest’unità e solidarietà di classe il capitale doveva riacquistare potere sui salari, diventati oramai una “ variabile indipendente ” dal ciclo produttivo.
Vero “cavallo di Troia” teso a scardinare il livello di autonomia e di radicalità raggiunto dal movimento operaio fu la scelta da parte delle stesse organizzazioni sindacali di farsi carico dell'obiettivo della tenuta complessiva dell'economia nazionale, sacrificando a questo gli interessi dei lavoratori, facendosi paladini del contenimento salariale e di una politica collaborazionista con l’avversario di classe che molto sinteticamente, ma efficacemente, fu allora definita dalla sinistra di classe ed extraparlamentare: “la politica dei sacrifici”.
La scelta strategica sindacale, nota con il nome di politica dell’EUR (1978) codificò la fine del salario conte “variabile indipendente” dal ciclo economico e definì una strategia di moderazione salariale a fronte di un improbabile scambio con governo e padronato di nuovi posti di lavoro.
La ricaduta politica di questo periodo furono i governi di solidarietà nazionale, dove l'ex PCI, seppure senza responsabilità dirette ministeriali, appoggiava la compagine governativa.
La copertura ideologica di questa operazione squisitamente ridistribuiva a favore dei profitti industriali e delle rendite e non più a favore del salario e delle condizioni sociale delle classi meno abbienti, fu il terrorismo di sinistra e le pratiche di violenza di massa che per tutti gli anni '70 si erano sviluppate in settori sostanzialmente giovanili. Non che questi fenomeni siano stati irrilevanti o marginali, ma certo non giustificavano affatto la sostanziale subalternità alle compatibilità economiche del sistema da parte delle organizzazioni sindacali e dell'ex PCI, anzi casomai li alimentò, ma non è questo l'interesse di tale premessa. Agli inizi degli anni '80, il sindacato vive già una forte fase critica, strettamente legata alla crisi occupazionale che soprattutto nei settori privati si sta già determinando. La crisi della siderurgia italiana si era manifestata già a metà anni 70 e le possibilità di sbocchi occupazionali per le giovani generazioni sono in quegli anni sostanzialmente nei settori statali, dell’istruzione e degli enti locali.
Le difficoltà del settore automobilistico, provocano la crisi della FIAT-Auto che manifesta l'intenzione di licenziare 14.000 operai e di metterne 12.000 in cassa integrazione.
Nonostante le lotte serrate dei lavoratori e del Sindacato, nell'ottobre del 1980, dopo un mese di blocco totale della produzione, 22.000 operai vengono messi in cassa integrazione e non verranno più reintegrati in fabbrica.
Tutti gli anni 80/90 sono stati segnati dal tentativo padronale e governativo, con il convinto ausilio e protagonismo delle organizzazioni riformiste e sindacali, di rimettere sotto il proprio controllo la dinamica salariale e ridurre i meccanismi automatici di tutela del salario.
E’ proprio a partire dai primi anni '80, all'interno del movimento operaio e delle nuove generazioni cresciute e formatesi all'interno di un “humus” politico-culturale improntato alla solidarietà e alla eguaglianza, che si introduce, per la costruzione delle piattaforme rivendicative legate all'aspetto salariale, il concetto della professionalità, concretizzatasi come una vera e propria campagna promozionale dei valori della borghesia.
In sostanza si legavano quote salariali non più ai bisogni reali delle masse lavoratrici, ma a parametri presuntamente neutri come la collocazione nel ciclo lavorativo o al lavoro realmente prestato. La necessità di salario, mortificata dalla scelta di moderazione retributiva, il grimaldello della professionalità come unica possibile strada per rivendicare maggiori quote di salario determinarono in una prima fase forti rivendicazioni corporative fra le categorie che mantenevano ancora una capacità di contrattazione.
Fu il caso di settori lavorativi quali la Sanità ed i trasporti che in quegli anni ottennero notevoli passi in avanti sul terreno salariale e normativo.
Tali logiche corporative si insinuarono nelle stesse categorie dove la collocazione strategica di gruppi di lavoratori permetteva maggiori capacità contrattuali rispetto all'intera categoria. Ben presto anche questi “fortini ” vennero spazzati via nella logica inesorabile del conflitto di classe che non permette ad una categoria, men che mai a spezzoni di questa, mantenere condizioni salariali e normative più favorevoli di altri se queste non vengono allargate e fatte proprie dall’intera classe lavoratrice. Il caso delle Compagnie Portuali, trasformate da cooperative, le quali oltre ad avere migliori condizioni salariali rispetto agli alti i lavoratori controllavano e garantivano una migliore qualità e sicurezza della stessa organizzazione del lavoro, ad imprese private all'interno del settore dei trasporti e della Logistica fu paradigmatico di tale situazione. (siamo nel 1989 –Decreto Prandini– Liberalizzazione dei Porti) Tutti i meccanismi automatici di rivalutazione salariale furono messi in discussione a partire dalla Scala Mobile, anche se il suo reale epilogo sarà nel 1992, fino agli scatti di anzianità trasformati in cifra fissa e non più erogati in percentuale alla paga base.
Della politica sindacale premiante la professionalità è rimasta carta straccia negli archivi delle piattaforme rivendicative sindacali degli anni ‘80 e non poteva che essere così.
Premiare un presunto sapere all'interno di un’organizzazione economica e sociale in cui la collocazione lavorativa e quindi lo “status” sociale non é affatto legato a parametri neutri ma all’appartenenza di classe ed al ruolo svolto nei rapporti di produzione, era evidentemente una sciocchezza. La realtà fu quella di aver riconsegnato una larghissima e sempre più discrezionalità padronale su quote di salario e di reddito: cifre che in percentuale vanno dal 15 al 30% su salari e redditi operai o impiegatizi.
Dai premi di produttività legati a parametri individuali e di presenza, ai cosiddetti progetti finalizzati nei settori pubblici ed enti locali, distribuiti discrezionalmente dai dirigenti, fino a quote legate direttamente agli utili dell'azienda e quindi all'andamento dei mercati. Questo il dato sempre più diffuso nelle categorie di lavoratori dipendenti. L'attacco al salario è stato quindi propedeutico alla situazione di frantumazione del movimento operaio. In questa cornice viene posto il problema del costo del lavoro, sempre con il beneplacito delle organizzazioni sindacali. La trattativa dura quasi quattro anni, a partire dal giugno del 1989. Le trattative vanno avanti fino a quando nel giugno del '90, comincia la mediazione del governo. Nello stesso mese passa alla Camera la “leggina” che proroga al 31 dicembre 1991 la scala mobile. A luglio il Senato approva il disegno di legge per prolungare il meccanismo della scala mobile. Alcune ore dopo a palazzo Chigi viene raggiunto un accordo tra Governo, Sindacati e Confindustria.
Dal 1 gennaio 1992 è un altro il meccanismo per la tutela del salario dei lavoratori.
Le parti s’impegnano ad avviare dal 1 giugno la trattativa per la nuova scala mobile, per la riforma del salario e del sistema contrattuale.
IL 2 giugno 92 comincia il negoziato triangolare. Cgil, Cisl Uil definiscono una posizione unitaria.
Nel marzo 93 il Governo consegna alle parti sociali un documento su politica dei redditi, mercato del lavoro, politica industriale e pubblico impiego.
Il 3 luglio 93 viene raggiunto l'accordo. Il protocollo non viene firmato perché prima Cgil, Cisl, Uil consulteranno la base. Viene preso un nuovo appuntamento è per il 22 luglio.
12 luglio 93: comincia la consultazione dei lavoratori. 21 luglio 93: Ciampi convoca le parti per il 23 luglio alle ore 19. 23 luglio 1993: Accordo interconfederale tra Governo, Sindacati e Confindustria sulla politica dei redditi e sistema contrattuale
Prima della firma Cgil, Cisl, Uil rendono note le cifre della consultazione: alle assemblee hanno partecipato 3.650.000 lavoratori, di questi hanno votato 1.327.290 (pari al 37,3%); i sì sono stati il 67,05%, i no il 26,98%, gli astenuti il 5,98%.
Dall’accordo del 93 al successivo accordo del 22 gennaio 2009.
La crisi di profittabilità del capitale continua con scostamenti e congiunture non significative per tutta la metà degli anni ‘90 fino alla metà degli anni 2000 con crescite di PIL intorno al 1,5 -3% che non garantiscono aumenti consistenti di forza lavoro.
L'aumento ininterrotto dei livelli di disoccupazione giovanile nei due decenni passati la forte riduzione del potere d’acquisto dei salari in particolare di questo ’ultimo decennio e sopratutto la crescita di quote di salario accessorio hanno ricreato la classica situazione di debolezza della forza lavoro occupata, ricattata da un “ esercito industriale di riserva ” rappresentato dalle masse giovanili e femminili nella maggior parte inoccupati o precari e da settori sempre più consistenti d migranti provenienti dall’Est europeo e dall’Africa. Avendo reso il salario sempre più flessibile, cioè legato alla discrezionalità del padronato, al mercato, rivitalizzando prestazioni lavorative quali l'apprendistato, lo straordinario, il cottimo e monetizzando i rischi e la salute, la forza lavoro non poteva che necessariamente seguire questa “flessibilità”, oltremodo sospinta dall’introduzione delle nuove tecnologie informatiche nei cicli lavorativi.
La politica cosiddetta di concertazione inaugurata come abbiamo visto dall'accordo del luglio 1993 fra le parti sociali e il Governo, proseguita sostanzialmente fino ai primi anni del XXI ° secolo, ha fortemente eroso il potere d'acquisto dei salari e aumentato i profitti industriali. Di contrappeso in questi stessi anni l’'orario di fatto, quindi lo sfruttamento, è aumentato di molto.
Si pensi che nel solo settore auto negli anni precedenti l’ultima crisi (2006) si erano raggiunte di media procapite 120 ore annue di straordinario. (i dati sono riferiti agli anni 97/98)
La stessa media lavorativa settimanale nel settore metalmeccanico, che resta nonostante tutto il settore più sindacalizzato, era di 45 ore, tenendo di conto che l'orario ufficiale per i turnisti è di 38 ore.
I pochi nuovi posti creati con il lavoro flessibile, che poi vuol dire precario, i quali non si aggiungono alla forza lavoro stabile, ma la sostituiscono senza nessun effetto significativo sui tassi di disoccupazione, hanno funzionato da “dumping sociale” a ribasso per i lavoratori che ancora lavorano a tempo indeterminato. Sempre nel settore metalmeccanico, in quello stesso periodo, dei nuovi posti di lavoro ottenuti, ben il 66% sono a tempo determinato.
Si arriva così ai primi anni del 2000 dove i segni di una grande e scioccante crisi economia internazionale sono già evidenti. L’abnorme sviluppo dei prodotti finanziari e al contempo la riduzione dell’utilizzo degli impianti industriali testimoniano la crisi di sovrapproduzione classica.
Saranno poi la crisi dei cosiddetti “subprime” dell’agosto del 2007, ma soprattutto il fallimento della Lehman Brother del settembre 2008 a testimoniare la crisi economica mondiale in cui a distanza di due anni e mezzo ancora oggi tutto il mondo è immerso. E’ in questa cornice di lungo logoramento e di frantumazione del tessuto organizzativo e solidaristico del movimento operaio che la contrattazione nel 2009 subisce un nuovo e forse per ora imponderabile mutamento con l’accordo separato del 22 gennaio del 2009.
A questo sono seguiti una serie di accordi in deroga ai contratti nazionali, per altro sottoscritti anche dalla stessa CGIL, ma soprattutto è il caso FIAT che rappresenta un ulteriore passo in avanti rispetto allo stesso contenuto dell’accordo del 22 Gennaio, in quanto istituisce e definisce un’ulteriore indicazione contrattuale fatta di accordi aziendali ed individuali.
Infatti, fin dall'ingresso della fase più acuta della crisi non si è persa occasione per diffondere ed amplificare messaggi del tipo le vecchie regole non reggono più. Così, con il terreno spianato grazie a questa campagna tutta ideologica e particolarmente pervasiva, non ci si è fatto alcuno scrupolo a sperimentare nel Febbraio 2010 i primi accordi in deroga al contratto nazionale speculando su situazioni di grave emergenza occupazionale.
E' quello che è accaduto nel settore del credito con il contratto di Banca Intesa per le nuove assunzioni, nelle zone di L'Aquila, Lecce e Potenza firmato con quasi un anno di anticipo rispetto all'exploit di Marchionne che prevedeva un salario più basso per i nuovi assunti e soprattutto il successivo contratto sempre nel settore bancario all’Unicredit che prevedeva l’assunzione dei figli dei dipendenti.
Alcune ulteriori riflessioni
Preliminare all’analisi della diffusione della contrattazione, soprattutto quella cosiddetta di II° livello, che nella nuova vulgata ideologica padronale e governativa, dovrebbe diventare la forma più idonea per rispondere alla “globalizzazione” è la conoscenza di alcuni dati essenziali sulla struttura delle imprese del nostro paese.
La distribuzione dei dipendenti in Italia vede il maggiore addensamento sulle piccole imprese. Nella struttura delle imprese italiane, il 94,9% è collocato nella fascia da 1 a 9 addetti; nel rapporto tra dipendenti e indipendenti pesano le imprese con un solo addetto (che coincide con il titolare) e si tratta di 2.526.438 unità; tra queste ci sono tutte le partite Iva che in larga parte nascondono, in realtà, del lavoro subordinato. Se si escludono le aziende con un solo addetto resta comunque l’88% delle aziende sotto i 10 dipendenti.
Seguendo un criterio cronologico, si può osservare come gli anni ’50-‘60 sono stati caratterizzati da debolezza sindacale e da una forte centralizzazione della contrattazione.
Fu il boom economico all’inizio degli anni ’60 che provocò un aumento progressivo del potere sindacale, che si riflesse in un aumento degli scioperi e in significativi aumenti retributivi.
Fu con l’autunno caldo, al termine della decade 60/70, che si registrò un periodo di forza sindacale senza precedenti. In questa fase la contrattazione aziendale divenne la forma più utilizzata di determinazione dei livelli retributivi.
Ma già a metà degli anni ‘70 le condizioni economiche e sociali, che in parte abbiamo rivisitato, determinarono una sostanziale riduzione della contrattazione di secondo livello ed in ogni caso le poche vertenze che si riuscivano a svolgere riguardavano sostanzialmente problematiche organizzative e normative (legate alla gestione degli esuberi, orari ecc.) o al massimo redistributive di quote “una tantum” od annuali legate alla produttività. (premi di produttività)
Si può comunque dire che i premi di risultato, variabili con la performance, adottati comunque in gran parte delle aziende già coperte da contrattazione aziendale, sono stati pagati in modo discontinuo e per importi ridotti, limitando la distribuzione dei limitati guadagni di produttività.
Sulla base dei dati dell’indagine Invid condotta presso le imprese italiane con almeno 20 addetti dalla Banca d’Italia (2008) si calcola che nel periodo 2002/2006 non meno del 20% dei dipendenti riceveva solo i minimi salariali del contratto nazionale; tale quota stimata per difetto saliva al 50% nelle piccole imprese e scendeva progressivamente sino al 16% in quelle più grandi; inoltre inferiore al10 per cento al Nord, cresceva a circa il 30 per cento al Centro e superava il 40 per cento nel Mezzogiorno.
Questi premi quindi, oltre ad essere distribuiti sostanzialmente nelle grandi concentrazioni private o nei settori del trasporto hanno favorito un apertura dei differenziali salariali territoriali per qualifica. Nel periodo precedente il 1993, in ragione delle condizioni economiche, erano stati spesso posti vincoli alla contrattazione aziendale. Da un’indagine condotta sulla diffusione della contrattazione aziendale per classi dimensionali negli anni 1995 – 1996, sono emersi valori elevati, sia come dipendenti, che per imprese coinvolte, ma solo al di sopra della dimensione dei 50 dipendenti.
Infatti la maggioranza delle imprese ha fatto accordi a partire dal 1994, dopo cioè l'accordo del Luglio 1993 (88% calcolando i valori assoluti).
La propensione alla negoziazione decresce però al ridursi delle dimensioni aziendali ed è condizionato anche dal dato geografico. Si stima che nel 2001/02 circa la metà dei lavoratori privati nelle imprese con almeno 20 addetti e la quasi totalità dei dipendenti delle imprese di dimensione inferiore non fossero coperti da alcun contratto aziendale; la diffusione come si è già detto risultava particolarmente scarsa nel Mezzogiorno.
Si conferma, inoltre, lo stretto rapporto tra diffusione della contrattazione aziendale e dato dimensionale. Si riscontra, infatti la maggiore presenza di accordi al crescere della classe di addetti.
Nella classe più piccola (10-19) la percentuale è del 17,9% (dato Cnel ) Nel periodo 1998/2006. la tendenza della contrattazione di secondo livello è al massimo del declino.
Conclusioni parziali
A fronte di questi seppur parzialissimi dati penso che, oltre a volgere un analisi ancora più precisa anche in singoli settori lavorativi, magari fra i più significativi, occorra con forza indicare nella difesa della contrattazione nazionale l’elemento di arroccamento della prossima strategia sindacale.
Nessuna sciocca antinomia fra centralizzazione o autonomia delle lotte rivendicative. E evidente che in ultima analisi sono i rapporti di forza a determinare condizioni migliori o peggiori della stessa contrattazione. Per cui se ipoteticamente in una situazione particolare aziendale i rapporti di forza sono favorevoli è chiaro che l’opportunità di siglare accordi migliorativi va sfruttata.
Occorre avere però ben chiaro quello che nella lotta di classe è un dato inconfutabile e che già veniva affermato. Se queste condizioni di miglior trattamento non vengono o non venissero nel tempo generalizzate sono destinate non solo a retrocedere ma a determinare e sviluppare un’ulteriore frantumazione e scollatura del terreno solidale della classe. Quindi in questa fase visto il giudizio, credo unanime, che tutti noi abbiamo della fase politica e sociale, cioè quello di essere in un periodo storico di forte arretramento e di debolezza dei rapporti di forza complessivi del movimento operaio, occorre ribadire con forza che nessuna deroga o contratto separato può rappresentare un punto avanzato e di sviluppo per nuove battaglie solidali e di avanzamento delle condizioni della classi lavoratrici.
All’interno di questa battaglia sindacale per il mantenimento e consolidamento dei livelli nazionali di contrattazione occorre tendere all’accorpamento di settori lavorativi, riducendo e contrastando le finte cessioni di ramo d’azienda, così come le cosiddette esternalizzazioni, che vanno dai settori dei servizi all’impresa (lavoratori delle mense o della logistica, dell’indotto) fino agli uffici studi, oltre che per avere una maggiore massa contrattuale per dare reale significato alla battaglia egualitaria e di emancipazione delle masse lavoratrici tutte, invertendo e riducendo la tendenza di richieste di quote salariali accessorie e non pensionabili.
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